sabato 3 maggio 2008

La prospettiva del '68: quello che ci resta...

Nei primi anni '80 l'allora celebre gruppo teatrale dei Magazzini Criminali, proclamò un po' enfaticamente la propria appartenenza alla vera e unica gioventù bruciata del XX secolo: quella, per intenderci, troppo giovane per il '68, troppo vecchia per il '77.
Anche io mi sono sentito a lungo parte di questa generazione che, tradita dalla propria giovane età, non è riuscita a vivere del tutto pienamente la più entusiasmante delle esperienze che poteva allora cadere in sorte ad un giovane dei favolosi anni '60, condannato così a portarsi dietro il rimorso cocente per un'occasione solo sfiorata:... inutilmente andata persa. Spettatori ancora ingenui delle grida che echeggiavano nelle strade, nelle scuole e nelle università, siamo cresciuti poi con un preciso imprinting, che ci ha portati, con i nostri eskimo e le nostre barbe lunghe, a “militare”- come si diceva allora - nei movimenti studenteschi degli anni '70 in nome di quell' annus mirabilis che sicuramente sarebbe tornato di lì a poco e che questa volta sicuramente ci avrebbe trovati pronti.
Per questo molti di noi mercoledì scorso si sono ritrovati al PAN , dove si è svolto l'incontro, in forma di Assemblea, “La prospettiva del '68 quarant'anni dopo”, voluta dall'Associazione Paola, Mario ed Ettore de Martino. Nel corso della discussione a un certo punto qualcuno diceva come in questi giorni - con i risultati delle elezioni politiche che hanno dato una così schiacciante vittoria alla Destra - si sia probabilmente chiuso quel ciclo storico che il '68 aveva aperto, con la piena sconfitta di tutte quelle speranze che avevano infiammato allora le piazze di Praga, Parigi e Napoli. E' proprio così? - mi sono chiesto... Anche oggi, così come dopo la “nostra” rivoluzione napoletana del 1799, ci troveremmo tra le mani - ancora una volta! - il solito “ resto di niente” ? D'altra parte un anno fa la vittoria in Francia della Destra di Sarkozy sembrava proprio legittimare, a quarant'anni dal '68, la conclamata volontà di tagliare tutti i ponti con quest'esperienza i cui eredi, secondo il premier francese, avrebbero addirittura determinato il divorzio tra la morale e la politica. E ora, per finire, ecco che a qualche mese di distanza, i risultati di Roma e Londra sembrerebbero avvalorare questa linea di tendenza che a questo punto ci invita ad interrogarci se esista ancora una qualche eredità del '68 spendibile per le generazioni future.
Sono andato così a rileggere alcune pagine di un'autrice che i giovani sessantottini lessero poco e che invece – come ricorda spesso Cohn Bendit – avrebbero dovuto leggere con maggior profitto e attenzione: Hannah Arendt, studiosa del totalitarismo novecentesco.
In uno smilzo libricino, Sulla violenza, pubblicato nel '69, Hannah parla di quegli anni ed evidenzia quello che per lei risulta essere stato l'elemento sostanziale della rivolta studentesca: “La richiesta di una democrazia partecipativa che è riecheggiata in tutto il mondo e rappresenta il comune denominatore più significativo delle rivolte dell'est e dell'ovest deriva dal meglio della tradizione rivoluzionaria fin dal XVIII secolo. Ma nessun riferimento a questo obiettivo, né a parole né nella sostanza, si può trovare negli insegnamenti di Marx e Lenin che al contrario miravano entrambi a una società nella quale il bisogno di azione pubblica e di partecipazione agli affari pubblici sarebbe dovuta scomparire assieme allo Stato”. L'azione del movimento studentesco – ricorda ancora la Arendt – mette in discussione con la sua azione quel modello di democrazia rappresentativa che sta perdendo progressivamente ogni valore “a vantaggio dei grandi e complessi apparati di partito che non rappresentano tanto gli iscritti ma i funzionari di partito”.
Sembra in queste frasi risuonare la critica “antipolitica ” - o piuttosto impolitica! - di questi giorni, la stessa preoccupazione per un modello di democrazia che sembra aver esaurito ogni sua funzione e che – da solo – è destinato a non reggere più le sfide di una società complessa e transnazionale come quella odierna in cui ci è dato vivere. Risuona ancora la critica per un modello di politica che si rivolge esclusivamente ad un cittadino spettatore, piuttosto che attore e decisore, e che ci spinge a tratteggiare con urgenza le linee guida di una democrazia a venire più che mai necessaria. Problemi questi che tutte le classi dirigenti europee – siano esse di destra o di sinistra - si troveranno inevitabilmente nei prossimi anni a fronteggiare!
Quello che pertanto il movimento del '68 ci consegna come compito ineludibile è di cercare la forma di questa nuova democrazia, mettendo in pratica quella nuova concezione della politica che Hannah Arendt ha espresso con queste straordinarie parole: “Ciò che rende l'uomo un essere politico è la sua facoltà di agire; gli consente di riunirsi con i suoi simili,di agire di concerto e di raggiungere obiettivi e realizzare imprese che non gli sarebbero mai venute in mente, per non parlare delle aspirazioni del suo cuore, se non gli fosse stato dato questo dono: imbarcarsi in qualcosa di nuovo. Filosoficamente parlando agire è la risposta umana alla condizione di essere nato”.
Proprio quello che avvenne, per un giorno, nel 1968!